lunedì 15 ottobre 2007

Carcere e tutela ambientale


Attività di lavoro carcerario in ambito ambientale.


Il ”difetto genetico" che impedisce l’evoluzione del "lavoro penitenziario" da strumento risocializzante a risorsa individuale e collettiva.

A oltre venticinque anni dalla riforma penitenziaria, oltre quindici dalla "Gozzini" e dalla L. 56/ 1987 - della quale in questi giorni si parla spesso a sproposito - ed a quasi dieci dalla legge 296/93, appare doveroso fare il punto della situazione in tema di lavoro penitenziario.

Occorre innazitutto circoscrivere questa particolare tipologia lavorativa, comprendendo in essa solo quel lavoro prestato all'interno degli istituti da soggetti detenuti, oppure anche esercitato all'esterno dell’istituto penitenziario, ma esclusivamente da soggetti "affidati", "semiliberi" o "ammessi al lavoro esterno, ai sensi dell'art. 21 dell’Ordinamento Penitenziario" O.P.


Brevi cenni storici sul lavoro in carcere

Il lavoro penitenziario, nella seconda metà del secolo appena trascorso e nell’inizio di questo:
- ha subito qualche lenta evoluzione soltanto sul piano dei principi: è comunque rimasto obbligatorio per i condannati in condizioni fisiche valide;
- ha perso il suo originario carattere afflittivo;
- ha visto assegnarsi una remunerazione, sia pure ridotta ai sensi degli artt. 22 e 23 O.P..;
- ha ottenuto il diritto al percepimento degli assegni familiari;
- ultimamente ad esso si è applicata la disciplina generale sul collocamento.

La parabola appena descritta individua, delinea in modo estremamente sintetico e nel periodo temporale, un percorso estremamente lungo e faticoso della normativa che rincorre l’omologazione del lavoro penitenziario.
Ma questo appare un processo esclusivo, oltre che lento, nel senso che è stato introdotto dal legislatore sulla spinta di idee generate ed elaborate in differenti ambiti: amministrativo-penitenziario, universitario, giurisdizionale, tutti ambiti che hanno però costantemente costantemente fuori da se, quindi escluso, i due soggetti primari: il detenuto e l’imprenditore.

Sintetizzando ci sentiamo di affermare che il “lavoro penitenziario” potrebbe essere paragonato ad una monoposto da formula uno che ha il suo sistema propulsivo, il suo motore, posto innanzi alla macchina, che per questa ragione può subire solo un “trascinamento”, ma offre una serie di resistenze, aggiuntive al movimento, che ne rallentano la corsa.
Il lavoro penitenziario tuttavia è rimasto il cardine del trattamento rieducativo e pertanto concorre a promuovere il processo di modificazione degli atteggiamenti antisociali dei condannati, che sono di ostacolo ad una costruttiva partecipazione sociale, è quindi titolare di una funzione, se non rieducativa almeno risocializzante.
Con le varie riforme, sino ad arrivare all’ultima cd. Smuraglia, il suddetto “peccato originale”, non è stato eliminato, ma si è perpetuato e il legislatore ha creduto di migliorare la prestazione dell’insieme variando i motori, ovvero aggiungendo alla macchina “lavoro penitenziario” propulsori sempre più sofisticati o potenti, ma comunque “geneticamente” destinati all’inefficacia.
Se passiamo dal piano giuridico, di cui abbiamo potuto esporre i sia pur limitati progressi, al piano pratico della vita nel carcere, bisogna constatare che si sono fatti notevoli passi indietro.
La mancata individuazione dei campi di intervento unita all’indisponibilità di reperimento di adeguate risorse economiche è tra le concause della riduzione delle possibilità di lavoro inframurario offerte dall’Amministrazione e le attività di lavoro attualmente riguardano un numero di soggetti trascurabile. Negli Istituti penitenziari oggi non si va oltre il lavoro cosiddetto "domestico", comprendendo in tale definizione anche i lavori di ordinaria manutenzione degli immobili penitenziari.
In effetti la riforma del '75, prevedendo la quasi completa equiparazione del lavoro penitenziario alla organizzazione del lavoro nella società libera, ha allontanato gli imprenditori dal carcere, e ha fatto venire meno l'interesse per una manodopera, fino a quel momento, prestata a buon mercato.
Tranne poche eccezioni, l'Aministrazione penitenziaria è rimasta per lungo tempo l'unica committente delle proprie episodiche lavorazioni (tavolini, sgabelli, armadietti, plaid, coperte etc) per una serie complessa ed infinita di ragioni, che vanno dalla impreparazione manageriale della dirigenza, alla carenza di manodopera esperta nelle lavorazioni, alla mancanza di maestri d'arte e (soprattutto) alla inadeguatezza delle strutture carcerarie.
Il lavoro cosiddetto "produttivo" in carcere è andato così progressivamente impoverendosi, a tutto vantaggio del lavoro "domestico" il quale possiede certamente minore valenza ai fini del trattamento rieducativo del detenuto e della qualificazione professionale necessaria al successivo reinserimento sociale.

Per qualunque imprenditore persiste poi una vera e propria barriera insormontabile costituita dalla difficoltà ad introdurre in carcere i processi produttivi e tecnologici. Colui che volesse cimentarsi con questa sfida, deve fare i conti con problemi quali l’esigenza di sicurezza, l'alta mobilità della manodopera, il limitato grado di professionalità degli addetti e delle strutture di gestione, l’assenza di una vera libertà di scelta individuale del lavoro con le inevitabili ricadute dal punto di vista della motivazione personale.
In aggiunta si consideri l’esiziale inappetibilità dell’investimento economico in ambito penitenziario, che in regime di libero mercato non offre alcuna speranza anche per il futuro.

Qualsiasi investitore, anche il più sprovveduto, posto davanti alla scelta non avrebbe alcun problema ad escludere i rischi derivanti dall’impegnare risorse proprie in un’attività produttiva da intraprendere all’interno delle strutture penitenziarie ed a privilegiare gli investimenti nelle nuove tecnologie.
E questa rimane, a nostro avviso, la ragione essenziale per la quale il mondo imprenditoriale tradizionale si è sempre defilato rispetto all'ipotesi di portare lavoro all'interno delle anguste mura carcerarie.

Ultimamente sia la L. 296/93 che, soprattutto, la Legge 193 del 22 giugno 2000 (cosiddetta Smuraglia), hanno cercato di delineare nuovi strumenti e aree per la creazione e la gestione di lavoro intra ed extramurario, affidando al volontariato ed alle cooperative sociali la funzione di soggetti maggiormente qualificati ad agire in questi spazi.
Infatti, le cooperative sociali si propongono sicuramente come realtà in grado di fornire le migliori opportunità, perchè possono sfruttare la loro già sperimentata esperienza di radicamento e integrazione territoriale mentre il volontariato, e l'associazionismo in genere, può offrire la propria rete di relazioni formali, con partners istituzionali e no, che ogni singola realtà e, a maggior ragione, il collettore territoriale (ove esiste) è in grado di garantire.
Considerato che in base alla normativa in vigore alle Regioni sono attribuiti compiti di politica attiva del lavoro e di promozione di specifiche iniziative rivolte alle fasce deboli nell'ambito di una più ampia programmazione di crescita occupazionale del territorio regionale, a nostro avviso, e per evitare il fallimento delle iniziative intraprese ed il conseguente sperpero di risorse pubbliche, l’Ente Regione deve tentare, ad ogni costo, di correggere il difetto “d’origine” del lavoro negli istituti penitenziari.


La correzione del ”difetto genetico” del lavoro penitenziario.
Il tentativo che l’Ente regione deve portare a termine è quello di traslocare il “motore” del lavoro penitenziario all’interno del sistema, prima stimolando la creazione di una coscienza tra la popolazione detenuta supportata dal personale penitenziario, facendo in modo di introiettare il lavoro che, da semplice “strumento di rieducazione”, deve diventare “risorsa personale e collettiva”
Tradotto in termini di concretezza, ciò significa ottimizzazione dei percorsi formativi e di reperimento delle opportunità occupazionali, idonee per quel particolare tipo di lavoratore svantaggiato, anche superando il limite imposto dalle attuali normative non disdegnando, ad esempio, anche la costituzione di società compartecipate Ministero della Giustizia – EE. LL. - Organizzazioni imprenditoriali – EE. no profit - sul facsimile delle recenti strutture gestionali dei servizi comunali.
A questi organismi dovranno essere affidate la ricerca dei sistemi, la progettazione e la gestione delle strutture di Lavoro penitenziario e potranno mantenere, entro rapporti predefiniti, la parte pubblica accanto alla corretta remunerazione del rischio d’impresa.
Successivamente a questa prima fase si potranno scegliere le forme di lavoro e gli ambiti in cui è possibile l’intervento del lavoratore penitenziario.


Il lavoro penitenziario del nuovo secolo, l'ambito ambientale.
Qui è pensabile che possa inserirsi una corretta valutazione di occupazione stabile in campo ambientale del detenuto. In questo modo sarebbe pricipalmente rispettato il principio “risarcitorio” della pena, ovvero colui che è stato giudicato per un reato, in fase di espiazione della pena inflitta, risarcisce la società con il valore aggiunto di un corretto recupero ambientale, di una tutela di una specie protetta, di un’attività ecologicamente compatibile, comunque di tutte quelle forme di lavoro comunque altamente dotate di valenze positive.
Questa ricerca progettuale andrebbe opportunamente illustrata al candidato lavoratore detenuto che, per esperienza diretta, ricerca ed apprezza, questo tipo di attenzione, e liberamente sceglie l’ambito di attività specificatamente rivolta verso settori a vocazione ambientale.
Oltre al rispetto etico della funzione della pena, tale ambito di lavoro, offrirebbe un indubbio carattere di modernità divulgabile nelle forme più opportune, per cui la persona che termina di scontare il suo debito, al momento dell’uscita dall’istituzione penitenziaria si renderebbe conto di aver acquisito, attraverso il suo lavoro, un bagaglio di competenze sicuramente appetibili al mercato esterno.

Questa evoluzione appare, allo stato dei fatti, l’unico modo possibile per dare cittadinanza, dignità, produttività e sviluppo al lavoro penitenziario.


Carlo Hendel

15 ottobre 2007

giovedì 4 ottobre 2007

L'Asinara in carcere!

Qualcuno legittimamente potrà chiedersi la ragione di un simile titolo del post.
Prego l'affezionato lettore di dare uno sguardo alla foto che segue...



Al fine di diffondere maggiormente le notizie contenute in questo blog, ho pensato di pubblicare un altro blog al seguente indirizzo:
http://www.asinara.ilcannocchiale.it


La foto è stata graficamente modificata, le sbarre sono state apposte e volutamente rese "artificiali" per evidenziare l'assurdità del silenzio e delle omissioni dell'Ente parco sui trascorsi penitenziari dell'Isola.